Dare (נָתַן nātan)

Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. (Is 50,6)

גֵּוִי֙ נָתַ֣תִּי לְמַכִּ֔ים וּלְחָיַ֖י לְמֹֽרְטִ֑ים פָּנַי֙ לֹ֣א הִסְתַּ֔רְתִּי מִכְּלִמֹּ֖ות וָרֹֽק׃

Dorsum meum dedi percutientibus et genas meas vellentibus: faciem meam non averti ab increpationibus et sputis.

Dare (נָתַן nātan), nell’ebraico biblico, è un verbo con una gamma di significati incredibilmente ampia. La parte preponderante riguarda il gesto del tendere una mano per deporre un oggetto in un determinato luogo o per passarlo ad un’altra persona, a pagamento o gratuitamente. Il risultato dell’azione descritta dal verbo נָתַן (nātan) è permanente e definitivo. Tra i suoi molteplici significati possiamo citare, oltre a “dare”, “donare”, “porre”, “collocare”, “consegnare”, “affidare”, “depositare”, “rendere”, “restituire”. 

La prima lettura di oggi (Isaia 50,4-7), tratta dal libro del profeta Isaia, è l’inizio del terzo canto del Servo sofferente di YHWH, presentato non tanto come un profeta, ma come un saggio, un fedele discepolo del Signore, inviato per istruire sia i pii che gli smarriti. Il Servo del Signore, dal canto di Isaia, non fugge dalla sofferenza, ma come dice lui stesso: «Presentai (נָתַן nātan) il mio dorso a quelli che mi percuotevano, le mie guance a quelli che mi strappavano la barba. Non nascosi la mia faccia agli oltraggi e agli sputi» (v.6). Il Servo del Signore non solo non fugge dalla sofferenza, ma nemmeno la sopporta passivamente. Con la forza della propria volontà e pazienza, consapevolmente “dà” (נָתַן nātan) la propria schiena e le proprie guance a coloro che lo picchiano. La ragione di questo comportamento del Servo del Signore non è il suo coraggio, ma la certezza che Dio lo sostiene, gli presta soccorso e quindi non è confuso (cfr v. 7). 

La descrizione della sofferenza del Servo del Signore evoca la descrizione della passione del Signore Gesù secondo l’evangelista Matteo, che leggiamo oggi durante la Liturgia della Parola: “Allora lo assalirono. Gli sputarono in faccia, lo picchiarono con i pugni e lo schiaffeggiarono” (Mt 26,67) e ancora “gli sputarono addosso e lo colpirono con una canna sul capo” (Mt 27,30). L’atteggiamento del Servo sofferente, che “dà” (נָתַן nātan) le spalle a chi lo percuote e le guance a chi gli strappa la barba, è presagio profetico dell’atteggiamento di Gesù, che nel Vangelo di Giovanni afferma con enfasi: “Per questo il Padre mi ama, perché io do la mia vita per riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma io la do da me stesso. Ho il potere di darla e ho il potere di riprenderla. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio” (Gv 10,17-18).

Sia l’atteggiamento del Servo sofferente, che l’atteggiamento del Signore Gesù non sono un segno di pace stoica, ma derivano da un profondo rapporto con Dio, dalla fiducia nel suo aiuto e da un completo affidamento in Lui. Per questo la contemplazione della Passione, Morte e Risurrezione di Gesù ci fa in modo toccante renderci conto che, come dice il profeta per “le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,5).

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