Tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio. (Eb 12,2)
aspicientes in Auctorem fidei, et consummatorem Iesum, qui proposito sibi gaudio sustinuit crucem, confusione contempta, atque in dextera sedis Dei sedet.
Non glielo permise, ma gli disse: Và nella tua casa, dai tuoi, annunzia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ti ha usato. (Mc 5,19)
Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini, cercate la giustizia, cercate l’umiltà; forse potrete trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore. (Sof 2,3)
Quærite Dominum omnes mansueti terræ, qui iudicium eius estis operati: quærite iustum, quærite mansuetum: si quomodo abscondamini in die furoris Domini.
Cercare (בקשׁ bāqaš), questo verbo in ebraico ricorre nella coniugazione piel e significa “cercare”, nel senso stretto del termine, ma anche “investigare”, “tentare” (di ottenere qualcosa), “perseguire”, “desiderare”, “pretendere”, “chiedere”. Da esso deriva il sostantivo בַּקָּשָׁה (baqqāšâ), che significa “richiesta”, “desiderio”. Questo verbo, nel suo significato fondamentale “cercare”, presuppone come soggetto una persona che “cerca” e come oggetto una persona o una cosa cercata. La ricerca è il processo mediante il quale l’oggetto cercato sembra esistere ma al momento non si trova. La ricerca è diretta a superare questo stato di mancanza, temporanea o permanente, dell’oggetto della ricerca. Nell’Antico Testamento il verbo בקשׁ (bāqaš) indica dunque un’azione cosciente e ben orientata, che richiede spesso fatica, intelligenza e fantasia, come è il caso della ricerca della sapienza in Pr 2,4: “se la cercherai come l’argento, e per essa scaverai come per i tesori, allora comprenderai il timore del Signore, e troverai la conoscenza di Dio”.
Nella prima lettura odierna dal Libro del profeta Sofonia, già nella prima frase, il verbo בקשׁ(bāqaš) è ripetuto ben tre volte, perché il profeta ci chiama: cercate il Signore (bāqqešûYHWH), cercate la giustizia (bāqqešûṭeḏeq) e cercate l’umiltà (bāqqešûʽǎnāwâ) (Sof 2.3).Continua dicendo che dalla distruzione emergerà tutto un popolo umile e povero che cercherà rifugio (חָסָה) nel nome del Signore (Sof 3,12-13). Come notiamo, in questo caso l’autore usa un verbo diverso (חָסָה), che a sua volta contiene l’idea di cercare e significa “cercare rifugio”.La domanda che si pone riguarda il soggetto di questi verbi, cioè la persona che cerca il Signore, la giustizia e l’umiltà. Certamente è qualcuno che non si sente autosufficiente, mapiuttosto determinato ad affidarsi a Dio nella vita. Vale la pena notare che l’“umiltà”, in ebraico ʽǎnāwâ, è legata alla povertà in spirito, cioè all’atteggiamento di una persona che si aspetta tutto da Dio, non solo un rifugio.
Nel Vangelo di oggi (Mt 5,1-12), il Signore Gesù proclama beati proprio i poveri in spirito, “perché di essi è il regno dei cieli”. Dobbiamo notare che Gesù usa non il futuro, ma il presente: “di essi è il regno”, perché ai poveri in spirito già ora appartiene il regno. Tutte le altre beatitudini sono, per così dire, la conseguenza di questa scelta fondamentale: cercare prima il regno del Signore, e poi tutto il resto ci sarà dato in dono.
Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre. (Eb 10,10)
In questo caso, infatti, avrebbe dovuto soffrire più volte dalla fondazione del mondo. Ora invece una volta sola, alla pienezza dei tempi, è apparso per annullare Il peccato mediante Il sacrificio di se stesso. (Eb 9,26)
alioquin oportebat eum frequenter pati ab origine mundi: nunc autem semel in consummatione sæculorum, ad destitutionem peccati, per hostiam suam apparuit.
Populus, qui ambulabat in tenebris, vidit lucem magnam: habitantibus in regione umbræ mortis, lux orta est eis.
Splendere (נָגַהּ nāḡah), in ebraico, è un verbo che deriva dalla radice nḡh, che indica non tanto la fonte della luce ma lo splendore che da essa ne scaturisce. Questo verbo è spesso usato insieme al sostantivo “luce” (אוֹר), che brilla e irradia (אוֹר נָגַהּ ʼôr nāḡah). Il verbo נָגַהּ (nāḡah) ricorre frequentemente nelle teofanie, ossia nelle manifestazioni di Dio. Ad esempio, in Ezechiele 10,4 la fonte della radiosità è “la gloria del Signore”, mentre il profeta Abacuc dice che la magnificenza di Dio è come la luce, e la Sua potenza è nascosta nei raggi che emanano dalle Sue mani (Abacuc, 3,4). La luce è la vita, perciò la teofania è espressione dell’azione salvifica di Dio per l’uomo.
Nella prima lettura di oggi, tratta dal Libro del profeta Isaia (8,23b-9,3), nel buio delle tenebre, privo di ogni luce, a un certo momento, brillò una luce: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce, sugli abitanti in paese tenebroso risplendette una luce» (אוֹר נָגַהּ Is 9,1). Questa è una profezia riguardante la venuta del Messia che porterà la luce alle nazioni.
L’evangelista Matteo quando racconta l’inizio dell’attività di Gesù cita proprio questa profezia di Isaia. Infatti, Gesù comincia la sua vita pubblica non a Gerusalemme o generalmente in Giudea – centro della vita religiosa degli ebrei – ma a Cafarnao, nella Galilea dei Gentili, al confine delle terre di Zabulon e Neftali (Mt 4,12-23). Gesù va dove c’è la più grande oscurità, perché è Lui la fonte di vera luce, capace di rischiarare le più fitte tenebre dalla vita umana.